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Attorno a lui sono ruotati i miei primi trent’anni.
Ho così tanti ricordi legati a questo specchio d’acqua – il Chiaro, come lo chiamano qui – che ripercorrendo le sue stagioni potrei ricostruire le tappe della mia vita.
Nelle sue acque ho imparato a nuotare.
C’è un microscopico approdo, una sorta di porto in miniatura, circolare, racchiuso da due pontili che distano tra loro un centinaio di metri. Quella distanza era la mia misura, la percorrevo in un buffo dimenarmi accompagnato da spruzzi e schizzi, con i braccioli rosa e le corte codine che spuntavano dall’acqua. Ero felice e orgogliosa sotto gli occhi del babbo, che mi assisteva in quella traversata che aveva il gusto dell’avventura. I giorni della fiducia dell’infanzia, del brivido della scoperta, della libertà.
Una volta ogni tanto, poi, quasi come un premio fortuito deciso da una divinità bizzarra, c’era la gita in barca. Una barca di legno, piccolissima, da pescatori della domenica, spinta dalla sola forza di un enorme remo di legno sverniciato, quasi più grande di tutta l’imbarcazione, che il babbo muoveva come fosse una piuma. La barca scivolava silenziosa sulle acque setose, e i miei occhi seguivano ipnotizzati le increspature sulla superficie scura, che non lasciava vedere il fondo. Erano i giorni quieti della calma, del gusto genuino delle cose.
Nella primissima adolescenza ci sono state le estati del canottaggio. Uno sport che non avrei voluto fare, che ho subìto e vissuto male, perdendomi ciò che di bello avrebbe potuto darmi. In quegli anni il lago mi era quasi insignificante: non sapendo vederne la bellezza, ne venivo respinta. Così come venivo respinta da me stessa, incapace di capirmi e di leggere il mondo intorno a me, negli anni della confusione e dell’inadeguatezza.
Poi il lago è diventato il rifugio. Avere la patente significava anche la libertà di venire tutte le volte che volevo. Da sola, in meditazione. O in due, per confidarsi. Io e lei in uno schema costante: chiuse in macchina d’inverno, al riparo dal freddo, con le acque sferzate dal vento distese davanti a noi e il piazzale deserto. Oppure a passo lento sui pontili, d’estate, accarezzate da quel sole che ci piaceva tanto. Ma sempre per chiacchierare e raccontarsi, anche quando le parole non venivano e si stava in silenzio. Quante ne ha sentite, il Chiaro. A volte inezie infinitesimali, che pure sembravano importantissime, altre volte eventi più grandi, che avrebbero impresso una direzione alle nostre vite. Erano gli anni della crescita, del sentirsi grandi, della scoperta del mondo. Gli anni dei picchi di folle felicità e degli abissi di disperazione più nera. Lui era lì, apparentemente sfondo, in realtà protagonista insieme a noi delle nostre vite giovanili.
Con il tempo gli incontri si sono diradati e il lago è diventato un luogo in cui andare solo in certe occasioni. Ma erano sempre occasioni speciali, ogni volta era come un ritorno. Un’amica che non vedevo da tempo. Un discorso importante da fare. Il desiderio di una passeggiata chiarificatrice. Sapevo che il lago mi avrebbe accolto, i pioppi fruscianti a fare da sottofondo, le colline intorno a racchiudere i pensieri per non sentirsi smarriti, le barche di legno colorato attaccate alla riva come rassicurante presenza.
Il luogo di tanti pranzi all’aperto, di tavolate eterogenee e sempre diverse sotto al pergolato che non c’è più. Uno, in particolare, ancora nel ricordo risveglia in me la gioia del giorno in cui tutti gli amici, da ogni parte d’Italia, sono accorsi per festeggiarmi, avvolgendomi nel loro affetto nel momento in cui ne avevo forse più bisogno. Un giorno di sole, di risate e di affetto, di felicità pura.
È il primo posto in cui ho portato lui, quando è venuto a trovarmi, in un torrido pomeriggio di agosto. Nei giorni della scoperta reciproca, è stato il mio modo di raccontarmi, perché lì era conservato un pezzo tanto grande di me.
Ora che vivo lontana, il lago è il primo posto in cui tornare. Per un saluto, per vedere cosa è cambiato, se è sempre lui. Ed ogni volta è sorprendente osservare il mondo a fior d’acqua: le dolci colline che gli fanno da corona contengono lo sguardo e rassicurano il cuore; una pace infinita si affaccia nell’animo, e vi rimane.
Ma, in fondo, questi non sono che i ricordi di una singola persona. Quanti ne saranno sedimentati sul fondo del Chiaro? Paure, dolori, desideri, vicende di vita vissuta di chi sente questo lago al fondo del proprio cuore. E quanta Storia è stratificata sulle sue rive accoglienti, quante vite ed eventi da leggere in trasparenza sull’olio cangiante della sua superficie costellata di canne e ninfee?
Nell’antichità era palude, gigantesco acquitrino melmoso portatore di malattie. Poi è diventato risorsa, ricchezza, benedizione. A fasi alterne, perché l’impaludamento è sempre stato il nemico predestinato del Chiaro, e ancora oggi è in agguato. Eppure, per secoli l’area ha fornito pesce per il sostentamento delle famiglie, canne e paglia per attività artigianali, è stata terreno di caccia e via di comunicazione.
Fino al secondo dopoguerra, tutto attorno al lago permanevano alcune aree paludose (le Bozze) che venivano date in concessione a singoli lavoratori per lo sfruttamento delle erbe palustri, con le quali si impagliavano sedie e si rivestivano fiaschi e damigiane. I lavoratori che, immersi nelle basse acque stagnanti, si dedicavano alla raccolta di erbe e giunchi, a volte si procuravano anche dei piccoli lucci o delle scardole, forse catturati con esche rudimentali o piccole trappole improvvisate. In questi casi, il pesce costituiva il loro pranzo.
Spostatiti su terreno asciutto, iniziavano a dividere la paglia dagli scarti, che venivano ammassati in un piccolo mucchio. Con gli scarti della paglia e le canne secche veniva acceso un piccolo fuoco, sopra al quale erano gettati i pesci appena catturati e cotti a fiamma viva per pochi minuti finché l’esterno non era carbonizzato. Allora venivano rapidamente raschiati per rimuovere le squame, aperti e ripuliti delle interiora, per poi essere gustati con un semplice condimento di aceto e sale, prima di proseguire il lavoro di raccolta delle erbe palustri.
Questo non è che uno dei modi in cui, nel corso dei secoli, il brustico è comparso nei pasti degli abitanti di Chiusi e delle zone limitrofe. È un piatto molto antico, c’è chi lo fa addirittura risalire agli Etruschi ma non mi azzarderei a tanto. Di certo, è un modo di cucinare e consumare il pesce molto caratteristico, nel quale si potrebbero anche ravvisare elementi di ritualità, nel fatto di gettare il pesce sulle fiamme ancora vivo, quasi come se fosse un sacrificio, o nella presenza del fumo che nell’antichità era strettamente legato alle offerte votive agli dei.
Quale che ne sia l’origine, è ancora oggi un piatto che i chiusini gustano con piacere, quasi fosse un simbolo identitario, mentre la brace del fuoco è ancora viva sulle canne secche e il lago veglia placido dalla sua conca perfetta.
Per la realizzazione questa ricetta, così particolare e difficilmente replicabile, il mio merito è pressochè nullo. Il babbo si è prodigato per trovare il pesce, ha approntato il fuoco e si è dedicato alla cottura, attività nella quale eccelle. La mamma, solerte e attenta, si è occupata di pulire e sfilettare il pesce. Io non ho dovuto far altro che dedicarmi alle foto, e alla tavola. A loro tutti i ringraziamenti.
BRUSTICO
Dosi: 4 persone Tempo di preparazione: 40 minuti Tempo di cottura: 5-10 minuti
Si mette il pesce fresco – senza squamarlo nè togliere le interiora – su una griglia o rete metallica. Si accende un fuoco con delle canne secche poste al di sotto della gratella ma che sporgono anche all’esterno e mentre il fuoco brucia si muovono le canne in senso orizzontale per cercare di dare una cottura il più omogenea possibile a tutto il pesce. Il tempo di cottura dipende dalle dimensioni dei pesci, di media servono almeno 5-6 minuti per ciascun lato. Alla fine il pesce risulta completamente nero all’esterno: è questo tipo di cottura che gli conferisce il tipico sapore affumicato e un po’ amarognolo.
Ogni pesce viene poi raschiato con una spugnetta metallica o con un coltello per togliere le squame bruciate, dopo di che si pulisce per ottenere dei filetti. Prima si tolgono la testa e la coda, poi si incide sul dorso con un coltello, si apre a libro e si tolgono sia le interiora ventrali che la spina dorsale. Poi si rimuovono le lische più piccole che sono rimaste dentro e che comunque vengono via piuttosto facilmente.
Si dispongono i filetti sui piatti da portata e si condiscono con sale e pepe, un po’ di aceto e abbondante olio evo. A piacere, si può aggiungere anche del limone.
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Bellissimi i tuoi ricordi! Un racconto pieno di calore che dà ancor più valore alla ricetta.
Grazie Viv! La ricetta di certo è difficilmente replicabile, al di fuori dei classici da foodblogger. Ma credo che il valore aggiunto sia proprio nel suo essere tradizionale e legata a ricordi personali… Grazie, buona giornata!
Ci si sente quasi indiscreti a leggere certe “ricette”… :-*
Ma…mica poi tanto dai…troppo?!
Questa ricetta che unisce una famiglia attorno al fuoco mi ha emozionata… <3
Grazie Libera…forse è più nel tuo stile di tante altre… Buona giornata!
Ciao Alice, grazie, sono a letto con la febbre, erano anni che non l’avevo più:-( Comunque, appena mi riprendo vado in avanscoperta in quel B&B 🙂
Ciao <3
No…mi dispiace per l’influenza! Spero ti passi presto…per il B&B non ti preoccupare, pensavo che fosse un posto che conoscevi già! Un abbraccio 🙂
Bellissimo racconto, bellissime foto e bellissima ricetta, anche se difficilmente replicabile per mancanza di materia prima 🙂
Mi hai fatto un po’ sognare ed entrare un po’ nella tua intimità 🙂 Bello anche così 😉
Un abbraccio
Grazie Angiola… Effettivamente è una ricetta poco da foodblogger ma molto sentita…e mi faceva piacere condividerla, anche se ovviamente pochi potranno rifarla. Ma se per caso passi da quelle zone, sai dove andare e cosa cercare nel menù del ristorante proprio in riva al lago…
Un abbraccio, buona giornata!
Come ben saprai, è di maggior gusto per me, leggere il tuo racconto che gustare la ricetta, anche se è bella la funzione collaborativa e collante che emerge. Anche per me il lago è un posto del cuore, e mi ricordo tanti momenti trascorsi lì in compagnia o da sola, compresa la bella festa della tua laurea con un gran sole.
Probabilmente, andrebbe valorizzato maggiormente: è un bene prezioso sotto tanti punti di vista.
😉
Francy, so che tu mi puoi capire! Quanto gli vogliamo bene al nostro lago? E quanti ricordi abbiamo? Compreso quello della festa di laurea, brava…che si capiva he parlavo di quella?! 😉
Un bacio, a prestissimo!!
si capiva, si capiva 😉 a presto ciao ciao
🙂
sicuramente ognuno di noi ha un posticino che lo lega a tanti ricordi … il tuo è veramente speciale!!
per non parlare del rustico e delle tue splendide foto che parlano!
ciao
elisa
Grazie cara Elisa…è davvero un posto cui sono molto legata!!
Dopo aver letto questo tuo post avrei voglia di chiudere il computer, prendere al volo passaporto e due o tre cose e prendere l’aereo, per tornare nella città e nei luoghi che mi hanno “cresciuta” e che invece adesso hanno accolto te… questo post é stupendo Alice, mi hai fatto commuovere. Grazie infinite.
Margherita!! Grazie a te, non sai quanto mi fai felice. Immagino che vivere così lontani dai luoghi che ti hanno cresciuta (che bella espressione) non sia sempre facile. Ti abbraccio forte e ti mando un po’ dell’aria di Firenze, che se la annusi bene sa già un po’ di estate 🙂
il mangiare sano e salutare della nostra bella Italia…gli scorci meravigliosi del nostro territorio…che dire!! stupendo da scoprire e da vivere!!….
Buona Pasqua a te Alice e grazie per farci fantasticare su posti fantastici..ciaooooooooooo
assunta
Grazie mille Assunta! Mi fa piacere se vi faccio viaggiare un po’, anche se solo con la fantasia… 🙂
Un saluto e tanti auguri di buona Pasqua!
mi hai trasmesso emozione e calore con questo tuo post amica mia!!! Buona Paqua!!!
Sarà che oggi è il giorno giusto per le gite, ma salirei subito su una barchetta, farei una bella passeggiata e poi pausa pranzo con il profumo della griglia! Aspettavo la primavera proprio per questo… e vedere foto di un posto per te così speciale mi ha fatto tornare la voglia di andare a Trevignano, che affaccia sul “mio” lago… 🙂
La stagione è quella giusta, senza dubbio. E anche io non vedo l’ora di tornare al mio lago…incredibile il fascino che possano sprigionare, vero? Non mi meraviglia che nell’antichità fossero considerati sacri! 🙂
Complimenti per l’articolo….è molto bello lo stile con cui scrivi, riesci proprio a trasmettere vere emozioni. Io vivo sul Lago di Como e mi sono ritrovata molto in alcuni stati d’animo che ha decritto nel tuo post..e mi hai fatto venire anche fame 🙂
Grazie mille Marta! Mi fa piacere sapere che quello che scrivo arriva al cuore di chi legge…soprattutto chi è predisposto e mi assomiglia..per sensibilità e gusti culinari! 🙂
Buona giornata!
Alice